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Come stai?

Forse alla fine della fiera, è solo questo che dovremmo chiedere alla neomamma.

Dopo il parto, bene che vada, fluttua in un ambiente del quale non riesce a percepire ancora bene i confini, proprio come non riesce a farlo il bambino che deve accudire.
Anche lei arriva da una vita “prima” dove tutto sommato si gestiva senza chiedere nulla a nessuno, autonoma e molto attiva.
Dopo invece, l’orizzonte si fa lontano, confuso, molle… come la sua pancia che le ricorda nove mesi di contenimento (o forse meno? O forse più?), un parto che magari si è scostato dalle sue aspettative, una forma che è più arrotondata nella quale a tratti fatica a riconoscersi.

Lei è intenta nella cura della sua creatura.
Non ha energia per altro, per altri, soprattutto all’inizio.
Si è dovuta fermare, o ha rallentato fino a sembrare quasi ferma, per accudire con pazienza, giorno e notte letteralmente, un esserino che non corrisponde le sue cure neppure sorridendole, per almeno qualche mese.
Lei è concentrata su altro.

E’ un impegno che non si immagina quando si è in attesa e che evidentemente si dimentica quando i figli crescono a giudicare dai racconti.
Perché le neomamme raccontano che la più grande fatica non è rispondere ai bisogni del bambino (o di due o tre figli), ma alle domande di quell’ambiente che anziché contenere, interroga e ai consigli di chi, invece di stare semplicemente ad osservare, consiglia.

Si coltiva la virtù della pazienza, certo, ma ad un certo punto si risponde con bugie colossali.
Perché nel tempo si impara a proteggersi dai consigli che spaziano dal “di pianto non è mai morto
nessuno” (ne siamo proprio sicuri? Gli studi di Spitz – e non solo i suoi – dicono ben altro…) e “a tenerlo sempre in braccio non te lo toglierai più” (ma per carità, mai vorremmo ci fosse “tolto” un figlio).

Come stai?
Basta questo.
Sarà la mamma poi ad aggiungere il resto. Forse.

 

 

Ph: DonnaD