Contesto con tante persone.
Confusione.
Un bimbo di pochi mesi è in braccio alla sua mamma.
Ammiro come tra seno e braccia riescono a gestirsi a meraviglia, mamma e creatura.
Respiro sincronia tra loro.
Io che in quel preciso istante non ho i miei tre accanto, penso che sia una cosa che con il
tempo, per fisiologia e necessità di crescita, si perde.
“Viziatello sto bambino, tutta la sera che lo tiene in braccio”.
Colgo il commento, anche se ne avrei fatto volentieri a meno.
Alcune cose, anche sussurrate, mi raggiungono.
Attenzione selettiva.
Accanto a chi ha parlato c’è un bambino che da inizio cena (non) mangia con il cellulare davanti.
Rimugino questa scena per un po’ per capire cosa porti ad etichettare come viziato un neonato in braccio alla sua mamma e contemporaneamente a non commentare che un bambino in età prescolare sta a tavola con un dispositivo sul quale può decidere contenuti per un tempo illimitato in modo non protetto.
A parità di contesto, sono modi diversi di crescere, di scegliere cosa sia necessario, opportuno, migliore per i propri figli.
Sono due modi diversi di agire la propria responsabilità di genitori.
Eppure uno viene commentato, l’altro neppure notato.
Tenere accanto o lontano. E non solo fisicamente.
Ascoltare o tapparsi le orecchie (o tappare la bocca).
Cullare o lasciar giù.
Contenere o lasciar andare.
Per ogni scelta avremo conseguenze, è finito il tempo delle antiche credenze: oggi le (neuro)scienze parlano molto chiaro.
Il “distacco” in tutte le sue forme lascia il segno.
Non solo nei bambini.